Indossare la camicia bianca non significa più niente
Ho deciso di scrivere questo breve articolo per portare la mia testimonianza di vita di under35-40 laureato, nell’Europa liberista di oggi. Una testimonianza per i compagni di partito con maggiore anzianità, per i compagni operai e per i compagni contadini, affinché sappiano che la lotta di classe è ormai sempre più trasversale e che, se la mattina, mentre andate a lavorare, vedete un ventenne o un trentenne che indossa una camicia bianca non significa automaticamente che sia un privilegiato e nemmeno un agiato. Forse, rispetto alle categorie prima citate, l’unica differenza sarà che quest’ultimo sarà probabilmente un illuso: un proletario, che non sa di esserlo o che non vuole ammetterlo. Uno che non ha mai smesso di fantasticare riguardo al sogno capitalista e di venir un giorno baciato dalla Dea fortuna e di diventare il grande manager d’azienda con Mercedes e villa a Capalbio o Cortina. Ahinoi, il sogno capitalista non è neanche più un sogno, ma quasi una caratteristica naturale dentro tutti noi nati dagli anni ’80 in poi, incarnatasi grazie al costante lavaggio di cervello della pubblicità materialista e consumista, e grazie a quel centro-sinistra che ha demonizzato la visione alternativa e l’ha voluta emarginare fino a cacciarla dal dibattito quotidiano e popolare, rendendola così un’idea extra-parlamentare a prescindere. Voglio riportare in particolare l’esperienza di espatriato partito non con la valigia di cartone e senza meta, ma con un contratto regolarmente firmato e una scrivania ad attenderlo in un paese straniero. Più nello specifico, partito per Berlino. Prima di tutto, a parità di ruolo, la differenza di stipendi tra Italia e Germania è a dir poco impressionante e con un costo della vita uguale, se non minore, rispetto alle città del nord-Italia, all’inizio c’era poco da lamentarsi. Questo non è valso per tutti, a seconda dell’esperienza e della fortuna, molti sono arrivati a Berlino con il colletto bianco ma con un contratto e una paga simile più o meno a quella di un operaio con regolare contratto delle grandi fabbriche del Nord-Italia (non considerando interinali o altre modalità di lavoro mafiose). Quasi tutte queste “start-up”, come vengono chiamate in modo ammiccante, operano in tutto il mercato europeo ed hanno bisogno così di personale che proviene da queste nazioni, per la conoscenza della lingua o per conoscenza del mercato domestico. Nel caso della mia azienda, servivano tanti italiani e venni assunto senza saper il tedesco ma solo con conoscenza dell’inglese, indispensabile per lavorare in un ambiente internazionale come quello. Il lavoro era estremamente ripetitivo, si trattava di valutare e quotare il prezzo di auto usate del mercato italiano. Eravamo tutti in un unico ufficio, e le 8 ore di lavoro erano piene, non c’era il tempo di chiacchierare o di fare pause. Non si trattava di spedire email o fare riunioni o altre attività giudicabili in modo soggettivo, ma di valutare automobili, una dietro l’altra. Ogni nostra azione veniva tracciata e venivano richieste almeno ottanta quotazioni al giorno per riuscire a smaltire il carico di lavoro, con punte di 120-130 auto al giorno. Almeno due settimane al mese era richiesto di lavorare anche il sabato, con orario ridotto, sei ore di fila, senza pause, portandosi il pranzo da casa e consumandolo davanti al computer. Detto questo, non mi lamentavo, sempre meglio del mio lavoro precedente in Italia, fino a quando non iniziai a conoscere meglio l’ambiente e alcune politiche aziendali, e una scomoda verità venne a galla. Lavoravamo in una grande stanza, circa 90 impiegati, di cui metà tedeschi, e l’altra metà composta principalmente da italiani e spagnoli. E indovinate un po´, i colleghi tedeschi guadagnavano circa il 20-25% più di noi sud-europei, facendo esattamente il nostro lavoro e vivendo come noi a Berlino. Questa cosa iniziò ad essere scomoda, e il malcontento iniziava a crescere e iniziammo a discutere sull’intraprendere possibili azioni per combattere questa ingiustizia. Solitamente, in un ambiente di ufficio, non c’è la cultura sindacale secolare che si può (forse) ancora trovare invece sul piano produttivo di una fabbrica, e le risorse umane avevano già da tempo sparso la voce che, in passato, un paio di impiegati che avevano cercato di formare un’associazione di lavoratori erano stati licenziati in tronco, questo anche grazie alle speciali leggi riguardanti le “start-up”, che pur di crescere e di raggiungere la fatidica e salvatrice soglia di economia di scala, non sono vincolate alla tutela dei lavoratori, come invece lo sono le aziende storiche. Contattammo l’ufficio per le discriminazioni di Berlino, il quale ci confermò che si trattava assolutamente di una pratica illegale, ma che purtroppo era difficile provarlo in sede di tribunale. Per salvaguardarsi infatti, l’azienda aveva assunto tutti noi con diverse denominazioni e descrizioni contrattuali, cosicché pur facendo tutti lo stesso identico lavoro, ufficialmente risultavamo avere mansioni diverse. La rabbia iniziava a crescere e si pensò di organizzarsi in maniera diversa, pur avendo paura delle conseguenze. Purtroppo qualche settimana dopo, scoppiò la pandemia covid e tutto si fermò. Tutti noi, tranne i team-leader, fummo messi in cassa integrazione e non ci rimase che sperare di non essere licenziati per cause maggiori. Lo sappiamo tutti noi comunisti che, esauritasi la spinta di ricostruzione del dopo-guerra, il sistema capitalista non ha fatto altro che peggiorare i divari tra ricchi e poveri dagli anni ’70 a questa parte (il coefficiente di Gini parla chiaro) e questo ha fatto sì che i lavoratori d’ufficio che venti o trenta anni fa, venivano riconosciuti come appartenenti al ceto medio o addirittura come piccoli borghesi ora non sono altro che “proletariato in camicia”. Inoltre, tanti di questi lavori d’ufficio sono sempre più simili a lavori di catena di montaggio Fordiana, ovvero estremamente specializzati, ripetitivi e de-personalizzanti. Nel nostro caso, forse solo una decina tra i 90 impiegati avevano più di due anni di anzianità. Appena possibile, cercavano di scappare, forse verso un altro lavoro di diverso tipo, ma probabilmente dalle stesse modalità. Chi deve valutare auto dopo auto, chi non fa altro che autenticare documenti, chi nel customer-care deve continuare a rispondere a richieste di clienti inviperiti, chi passa tutto il giorno a programmare codici, chi passa al setaccio segnalazioni riguardanti errori o malfunzionamenti di applicazioni, chi passa le giornate a fare telefonate a vuoto a potenziali clienti.., e tutti con paghe decisamente inferiori rispetto alle precedenti generazioni.